Secondo incontro: Maria Paola Bartocci, traduttrice di Wendy Cope, legge il mio post e mi scrive una e-mail. Segue un breve ma interessante scambio di e-mail, in una delle quali le propongo audacemente di raccontare qualcosa sul suo incontro (terzo e, per ora, ultimo del post, ma il primo di tutta la serie!) della storia con Wendy Cope. Paola accetta e in tempi brevissimi mi manda questo racconto, di cui la ringrazio moltissimo e che volentieri pubblico:
Io, Judith e Wendy
Un soggiorno a Londra, un’amica generosa e delle poesie insolite e accattivanti – unite i tre elementi e saprete come è nata la mia “relazione” con Wendy Cope.
Era l’anno scolastico 1993-94, lavoravo come assistente di italiano in una scuola inglese e le due raccolte di versi Making Cocoa for Kingsley Amis (1986) e Serious Concerns (1992) erano già state pubblicate da tempo. Wendy Cope era già un nome conosciuto lassù, una sorta di fenomeno letterario, perché – cosa rarissima per la poesia - i suoi libri avevano venduto parecchio e incontravano i gusti del pubblico, anche e soprattutto di quel pubblico che solitamente la poesia la ignora o la snobba.
La mia amica Judith le aveva entrambe e, conoscendo la mia passione per la lettura e il mio debole per la poesia, una sera me le prestò. Fu un colpo di fulmine a prima vista, già dalla copertina: perché da Faber& Faber - un nome che per l’editoria poetica inglese è garanzia di qualità e prestigio – ti aspetteresti qualcosa di serio e importante… non due libercoli smilzi smilzi, con dei buffi disegni in copertina: una ragazzina che beve una tazza di cacao nel primo, un orsacchiotto di peluche che legge le “Note per una definizione della cultura” di T.S. Eliot nel secondo.
A ben pensarci, Wendy Cope era già tutta lì: il sorriso ironico, la leggerezza pensosa, il non prendersi troppo sul serio senza però mai cadere nella trappola della superficialità e della risata facile. Le sue poesie - come scoprii subito dopo, divorandole – sono così: piene di ironia, di humour, di quello sfuggente “understatement” tipicamente British che sembra ammiccare al lettore per dirgli “avvicinati senza timore, prenditi queste sciocchezze versificate e fatti due risate”, e intanto – dopo averlo catturato – strizza l’occhio vittorioso… perché in realtà, se non capisci quanta dignità e quanto amore per le parole si celino dietro quell’apparente maschera da stolto, lo sciocco sei tu.
Il mio soggiorno a Londra è durato solo un anno. Ma quella generosa e ancora carissima amica, al momento di ripartire, mi regalò quei due libercoli per accompagnarmi nel ritorno a casa. Un segno del destino, chissà… e così, tornata in Italia, mi misi a tradurre quelle poesie per puro piacere e divertimento, per passione e per sfida con me stessa, nel tentativo di riprodurne le forme metrico-rimiche chiuse e quel tono semiserio che così tanto mi aveva colpito. Poi, sempre per pura sfida contro il caso, spedìi quelle traduzioni a Nicola Crocetti, direttore della prestigiosa rivista POESIA e fondatore dell’omonima casa editrice... e fu lui ad aggiungere il “lieto fine” a questa già improbabile e avvincente storia di amore poetico ed editoria.
Era il marzo 1997, e Wendy Cope appariva sorridente sulla copertina della rivista, mentre un mio articolo accompagnava le sue poesie (originali e traduzioni) all’interno. Una bella sorpresa per me, insperata e assolutamente imprevedibile. E una grande soddisfazione, non c’è che dire. Dal colpo di fulmine al colpo di fortuna, passando per i suoi molti colpi di genio. Poesia “vana” batte poesia “seria” uno a zero. O viceversa?
Un soggiorno a Londra, un’amica generosa e delle poesie insolite e accattivanti – unite i tre elementi e saprete come è nata la mia “relazione” con Wendy Cope.
Era l’anno scolastico 1993-94, lavoravo come assistente di italiano in una scuola inglese e le due raccolte di versi Making Cocoa for Kingsley Amis (1986) e Serious Concerns (1992) erano già state pubblicate da tempo. Wendy Cope era già un nome conosciuto lassù, una sorta di fenomeno letterario, perché – cosa rarissima per la poesia - i suoi libri avevano venduto parecchio e incontravano i gusti del pubblico, anche e soprattutto di quel pubblico che solitamente la poesia la ignora o la snobba.
La mia amica Judith le aveva entrambe e, conoscendo la mia passione per la lettura e il mio debole per la poesia, una sera me le prestò. Fu un colpo di fulmine a prima vista, già dalla copertina: perché da Faber& Faber - un nome che per l’editoria poetica inglese è garanzia di qualità e prestigio – ti aspetteresti qualcosa di serio e importante… non due libercoli smilzi smilzi, con dei buffi disegni in copertina: una ragazzina che beve una tazza di cacao nel primo, un orsacchiotto di peluche che legge le “Note per una definizione della cultura” di T.S. Eliot nel secondo.
A ben pensarci, Wendy Cope era già tutta lì: il sorriso ironico, la leggerezza pensosa, il non prendersi troppo sul serio senza però mai cadere nella trappola della superficialità e della risata facile. Le sue poesie - come scoprii subito dopo, divorandole – sono così: piene di ironia, di humour, di quello sfuggente “understatement” tipicamente British che sembra ammiccare al lettore per dirgli “avvicinati senza timore, prenditi queste sciocchezze versificate e fatti due risate”, e intanto – dopo averlo catturato – strizza l’occhio vittorioso… perché in realtà, se non capisci quanta dignità e quanto amore per le parole si celino dietro quell’apparente maschera da stolto, lo sciocco sei tu.
Il mio soggiorno a Londra è durato solo un anno. Ma quella generosa e ancora carissima amica, al momento di ripartire, mi regalò quei due libercoli per accompagnarmi nel ritorno a casa. Un segno del destino, chissà… e così, tornata in Italia, mi misi a tradurre quelle poesie per puro piacere e divertimento, per passione e per sfida con me stessa, nel tentativo di riprodurne le forme metrico-rimiche chiuse e quel tono semiserio che così tanto mi aveva colpito. Poi, sempre per pura sfida contro il caso, spedìi quelle traduzioni a Nicola Crocetti, direttore della prestigiosa rivista POESIA e fondatore dell’omonima casa editrice... e fu lui ad aggiungere il “lieto fine” a questa già improbabile e avvincente storia di amore poetico ed editoria.
Era il marzo 1997, e Wendy Cope appariva sorridente sulla copertina della rivista, mentre un mio articolo accompagnava le sue poesie (originali e traduzioni) all’interno. Una bella sorpresa per me, insperata e assolutamente imprevedibile. E una grande soddisfazione, non c’è che dire. Dal colpo di fulmine al colpo di fortuna, passando per i suoi molti colpi di genio. Poesia “vana” batte poesia “seria” uno a zero. O viceversa?
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